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LA META E' PARTIRE
con Francesco Comina
prefazione di Ettore
Masina
La meridiana, 2005
"Il mio professore di filosofia un giorno, guardandomi negli occhi, mi disse: "Tu sei questo uomo cosmico". Solo dopo compresi il senso. Ecco perchè io non mi sento spiritualmente vecchio. Sento che la storia e l'umanità palpitano ancora dentro di me" (Arturo Paoli)
In questo libro, curato dal giornalista Francesco
Comina, sono raccontati i quasi cent'anni di Arturo, il suo
impegno durante il fascismo, l’eco del Concilio, le
speranze, l’affermarsi e le ragioni della Teologia della
liberazione, il cammino delle Chiese dell’America latina
e soprattutto il suo cruccio e la sua ragion d’essere:
l'altro.
LA PREFAZIONE di ETTORE MASINA
Man mano che la
vecchiaia mi grava addosso e vedo crescere intorno a me la
tenerezza dei miei figli, torno col pensiero al mito di Anchise,
il padre che Enea si porta sulle spalle mentre cammina verso
un nuovo destino. Ma questa volta il mito non mi sorregge
perché devo parlare di una persona che ha sedici anni
più di me.
A osservarla mentre se ne sta in silenzio, quella persona
sembra un vecchietto lindo e sorridente, un po' curvo (ma
certo non tanto se si pensa che è nato nel 1912), con
una bella chioma bianca: immagine rassicurante, di buon nonno,
persino somigliante a quella di certi spot pubblicitari; ma
quando il vecchio Arturo Paoli viene invitato a parlare, allora
sembra rivestire il mantello del profeta Eliseo e la sua voce
grida un vangelo inquietante.
La voce di Arturo Paoli, come ben sanno i suoi ascoltatori,
è innanzi tutto un miracolo fisiologico: viene da polmoni
giovanissimi che le consentono di dispiegarsi in chiese e
in aule di convegni tanto da far vibrare le fibre dei tavoli
e i vetri delle finestre. Mi ha detto una volta uno pneumologo:
"Quest'uomo respira Spirito Santo". Le parole che
questa voce ci rivolge non sono mai aspre né minacciose,
improntate, invece, a tenerezza per noi, ma severe nei confronti
delle nostre coscienze e dei costumi e istituzioni dietro
le quali cerchiamo di nasconderci. Come mostrano con ogni
evidenza le pagine che leggerete qui di seguito, amorosamente
compilate da Francesco Comina (lui sì Enea accanto
ad un Anchise, che però preferisce camminare da solo),
le parole che Arturo grida o scrive (o canta, come vedrete)
più che indicarci i nostri infantili peccati personali
ci additano l'enorme, genocida peccato collettivo, la arrogante
risposta corale degli innamorati del potere - e di noi troppo
spesso loro pavidi servi - alla domanda del Creatore: "dov'è
Abele?" "E chi lo sa? Siamo forse i custodi dei
nostri fratelli?" rispondono e rispondiamo. "Sì,
grida il Signore con la voce di Arturo: sì, per questo
vi ho creato: perché vi prendiate cura l'un l'altro
di voi". Il vecchio amatore di filosofi è ormai
convinto che "metafisica" e "trascendenza"
siano parole che acquistano senso soltanto quando nascono
dal coraggio di affrontare gli occhi di chi soffre.
Dietro questa convinzione e testimonianza di Paoli c'è
ovviamente la sua esperienza storica. Egli ha il grande privilegio
della lucidità senile: la quale diventa straordinario
aiuto a quanti sanno che la memoria del passato è lezione
preziosa per il futuro. Il nostro amico (e maestro) era bambino
mentre in Messico e a San Pietroburgo sventolavano le prime
bandiere delle rivoluzioni popolari; imparava a leggere e
scrivere mentre in Italia venivano incisi nei marmi delle
lapidi menzognere i nomi di centinaia di migliaia di poverissimi
analfabeti, gettati nella fornace della prima guerra mondiale,
e i reduci tornavano piagati e piegati dall'amarezza di una
giovinezza perduta. Era un ragazzo quando vedeva le piazze
della sua Lucca segnate dalla violenza fascista; entrava in
ginnasio mentre Mussolini liquidava con ferocia la democrazia
parlamentare; era un prete di 32 anni quando la crudelissima
persecuzione degli ebrei lo spinse a rischiare la vita per
salvare le vittime dell'odio di Stato e, quando, pochi mesi
più tardi, si alzarono nel cielo i funghi velenosi
dell'apocalisse atomica: Auschwitz e Hiroshima, supreme barbarie
di un secolo. Più tardi avrebbe assistito in America
Latina a orrendi regimi militari e resistenze eroiche, a spaventosi
eccidi, al martirio degli empobrecidos; avrebbe ascoltato
le spaventose notizie che filtravano dalle camere della tortura,
e visto crescere un nuovo classismo (capitalista), una nuova
lotta di classe con la quale un'oligarchia della quale facciamo
parte, più o meno volontariamente riduce all'insignificanza
interi popoli - e alla fame.
La strada sui cui Arturo cammina da 93 anni è fiancheggiata
dai ruderi di molte ideologie, speranze, illusioni, civiltà,
filosofie, piccoli Mozart (per dirla con Saint-Exupèry)
assassinati dalla miseria. Sulla stessa strada ha camminato
la Chiesa, la "sua" Chiesa: quella che egli enormemente
ama ma della quale conosce il dramma di essere semper casta
et meretrix, come la definivano gli antichi Padri: congregata
intorno al Crocifisso risorto e però popolata da uomini
quasi sempre, quasi tutti, infedeli per viltà e per
egoismo.
Molte di queste infedeltà hanno segnato anche le spalle
di Arturo, e un po' anche quelle di chi ha vissuto una parte
della sua storia. Ricordo con dolore gli anni fra il 1948
e il 1958.
Ero nel Consiglio diocesano della Gioventù
italiana di Azione cattolica di Milano, ribelle, di quando
in quando, agli ukase che giungevano dalla Roma vaticana.
Rifiutavamo di entrare nel "grande" partito anticomunista
nel quale Luigi Gedda, con il compiacimento di Pio XII e della
Confindustria, avrebbe voluto fondere le "truppe"
cattoliche, i fascisti, le forze padronali, le massonerie
militari e via dicendo, per una guerra di religione. Ci capitava,
per incoraggiarci nei momenti bui, di fare un censimento dei
nostri "protettori" romani: elencavamo monsignor
Montini, monsignor Dell'Acqua, Carlo Carretto (più
tardi Mario Rossi), don Arturo Paoli… Salvo Dell'Acqua,
tutti gli altri furono esautorati e dispersi nei "giorni
dell'onnipotenza", gli ultimi tempi pacelliani.
Perdemmo allora (persi) notizie di Arturo, poi seppi che si
era imbarcato sulle navi che trasportavano i nostri emigranti
nella soccorrevole Argentina di Peròn. Poi che si era
fatto Piccolo Fratello. Poi disparve nuovamente (o mi sembrò)
nel tragico panorama dell'America Latina: villas-miserias,
poblaciones, favelas, cantegriles. Il Cristo che vi raggiunse
era esigente, imponeva conversioni; ma era anche un Risorto
fraterno, talvolta festoso. Ricordo l'emozione con il quale
ricevemmo durante il Concilio una lettera inviata da lui a
Mario Rossi: ci chiedeva di essere attenti a che l'assemblea
di tutti i vescovi della Terra non diventasse un momento "giacobino",
cioè il tentativo di riformare soltanto intellettualmente
la Chiesa, senza imprimerle il segno e il linguaggio dei poveri
nei quali il Cristo si è identificato.
Per questo il vecchio indomito torna e ritorna fra noi, lasciando
le sue nuove patrie. Viene come un messaggero. Ci porta il
vangelo non più glossato dai seriosi teologi nelle
celle dei conventi o nelle aule delle università ma
restituito alla sua rischiosa purezza dall'esperienza dei
poveri, dalla loro concretezza, dal loro ammaestramento così
eloquente anche quando è silenzioso. Ricordo un aneddoto
raccontato una volta da Arturo. Era da alcuni giorni in un
poverissimo villaggio dell'America Latina quando gli arrivò
un pacco di posta. Vi trovò, fra l'altro, una notificazione
della Congregazione vaticana per il culto divino nella quale
si disponeva che per la consacrazione eucaristica si usassero
soltanto calici rivestiti internamente d'oro o d'argento.
Rise, Arturo: "Avevamo appena celebrato la messa, come
ci sembrava doveroso, nella capanna di una poverissima vedova;
e naturalmente come calice avevamo usato un bicchiere scheggiato.
Quella notificazione ci divertì grandemente. Fu motivo
di ricreazione, di elevazione…".
Tornando e ritornando dalla Chiesa dei poveri, ogni volta
mi sembra che ci scruti, temendo che il sistema in cui siamo
più o meno tranquillamente insediati ci rubi il cuore.
Da qualche anno ha incontrato il pensiero del grande filosofo
Levinas (anche lui povero: profugo, straniero), gli ha dedicato
uno dei suoi numerosi libri e ne rilegge continuamente gli
insegnamenti. Dire, come Levinas, che dobbiamo darci in ostaggio
al volto dell'altro, del fratello che soffre, gli sembra una
versione dell'evangelo, riletta finalmente da un filosofo
disposto a chinarsi sui dolori e le speranze dei poveri, né
lo arresta il fatto che Levinas non fosse (o non si dicesse)
cristiano. Ma io credo che Arturo piuttosto che leggere libri
preferisca intendere le voci della Terra: il fragore delle
cascate di Iguaçu, presso cui abita, che sembra l'immenso
grido dell'America Latina ferita dall'ingiustizia e lo strillo
gioioso del bambino che egli accarezza nella "sua"
favela; le canzoni dei giovani che vogliono la pace e il sussurro
di chi gli affida i suoi problemi: è un salmo che lo
accompagna e che lui, all'alba, canta mentre il sole ancora
un volta sorride alle sue 93 primavere…
Stamattina ho incrociato casualmente questa perla e voglio condividerla con i miei 3-4 lettori.
I concetti espressi li sento così vicini alla mia visione del mondo, così in sintonia con le mie corde, che - se ne fossi stato capace - avrei voluto scriverla io questa splendida pagina.
Ma so bene che ci vuole un cuore grande ed una mente lucida per certe cose.
Mi accontento di leggerla e di meditarla!
Mi accontento di leggerla e di meditarla!