lunedì 18 giugno 2012

Dei simboli, degli inni nazionali e della crisi europea

Bandiera di guerra del 9° reggimento fanteria "Bari"





Le ruvide pressioni dei grandi gruppi di potere, tutti esterni agli Stati europei, sono ormai sotto gli occhi di tutti.
Ciò che non è chiaro o che non viene spiegato con la chiarezza necessaria è la volontà di questi stessi gruppi di voler procedere quanto prima alla costruzione degli Stati Uniti d'Europa.
La crisi economica europea non è quindi soltanto il calvario imposto alle classi più deboli dalle classi egemoni ma è anche il travaglio che precede la nascita di questa realtà sovranazionale. 
Gli ostacoli che si frappongono sono in gran parte di ordine economico ma non sono da sottovalutare nemmeno le controspinte nazionaliste degli Stati. 
Ciascuno di essi ha infatti alle spalle una precisa entità culturale, una grande storia patria vissuta entro i confini e spesso anche al di fuori di essi, una lingua scritta e parlata che fa da cemento all'unità di un popolo, un patrimonio artistico che è l'espressione più genuina del genio di una nazione
In una parola, ciascuno di essi ha la sua irrinunciabile identità.
Ed è su questo terreno che si gioca il futuro dell'Europa unita.
La moneta unica è stato solo il primo passo.
Il secondo dovrà essere la progressiva rinuncia alle rispettive sovranità nazionali che possono e debbono essere sacrificate in vista di un bene superiore.
In un mondo, diventato da tempo un piccolo villaggio, credo che sia giunto il momento di unire tutte le forze per assicurare un futuro migliore ai figli dei figli.
La strada dell'effettiva unione europea è quella da seguire. I grandi europeisti del secolo scorso ne erano più che convinti. Bisognerebbe però avere il coraggio di farlo fino in fondo. Ciascuno e tutti insieme.
Le bandiere e gli inni nazionali hanno esaurito il loro tempo.
Vengo da un ambiente, quello militare, nel quale il simbolo dell'unità nazionale, la bandiera, è sempre stato il primo destinatario dei massimi onori. Io stesso l' ho onorata convintamente ogni giorno.
So quindi di passare per un iconosclasta o per un irriverente se arrischio di dare sottovoce questo piccolo suggerimento pratico: aboliamo da subito gli inni nazionali (che, tra l'altro, da noi servono unicamente per le partite di calcio) e facciamone uno europeo; aboliamo tutte le bandiere (buone anch'esse solo per le partite di calcio) e  riuniamole in un'unica grande bandiera d'Europa
Scommetto che, nel giro di 10 - 20,  gli Stati Uniti europei saranno realtà.
Gli Stati Uniti d'America lo sono dal 1776!

domenica 17 giugno 2012

Dedicato al mio amico Tomaso


Seguo da alcuni anni questo blog
Il suo simpatico autore merita che io spenda due o tre parole non solo per ringraziarlo per l'incrollabile fedeltà con cui mi segue sul mio ma anche per sottolinearne le pregevoli doti di carattere. 
Comincio col dire che è un alpino. Ed io ho sempre stimato gli alpini, che considero i migliori soldati dell'Esercito Italiano. Generosi, forti, leali. 
E Tomaso è un alpino nel cuore e nella mente. Pur risiedendo all'estero, non manca mai gli appuntamenti dei raduni nazionali. 
È un generoso il nostro Tomaso. Non c'è commento sul suo blog (e ne riceve tantissimi, dato l'alto numero degli amici) che non trovi una risposta puntuale e sincera da parte sua. Personalmente non so come faccia a seguire tutto e tutti ed ad avere una parola per ciascuno! 
È una persona di una semplicità disarmante, di quella semplicità che definire naif sarebbe riduttivo e sbrigativo. La sua è una nobilissima indocta scientia tratta dalla vita. E la vita di Tomaso è una vita intensamente ed operosamente vissuta.
Quella di Tomaso è, in definitiva, una semplicità che va a braccetto con la genuinità e la freschezza, una semplicità che sfida gli anni, le convenzioni e l'anagrafe.
Grazie,  caro Tomaso, per l'amicizia e per il premio che sono onorato di ricevere dalle tue mani.

sabato 16 giugno 2012

Bianco e rosso


"Su biancu est fide pro non zedere incontr'a s'inimigu, a sos affannos.
Su ruju est amore pro sa Patria, pro sos mannos".

"Il bianco rappresenta la fede per non cedere davanti al nemico, alle fatiche.
Il rosso è l'amore per la Patria, per gli antenati".

Descrizione in lingua sarda del significato del colore bianco e del colore rosso che compaiono nella mostreggiatura dei Reggimenti (151° e 152°) della Brigata "Sassari"

giovedì 14 giugno 2012

La profonda semplicità dei grandi


Ecco il testo di uno degli ultimi scritti di Nicola Petruzzellis alla vigilia della morte.

Non sarò mai abbastanza riconoscente al mio amico Prof. Antonio Di Palma (che fu suo allievo a Napoli) per avermi fatto apprezzare - parlandone a lungo e con venerazione - il suo Maestro di vita e di pensiero che fu appunto il Prof. Nicola Petruzzellis.
Originario di Trani, insegnò filosofia teoretica prima nell'Università di Bari (1951-'58) e poi in quella di Napoli (dal 1959 in poi). 
Studioso di grande levatura e mente lucidissima, il Petruzzellis fu autore prolifico e si interessò anche di pedagoglia e di storia della filosofia. Moltissimi i libri ed innumerevoli le pubblicazioni di questo filosofo.
Personalità di rara rettitudine e di eccezionale spessore morale, all'epoca delle contestazioni studentesche del '68, che lo coinvolsero direttamente, abbandonò orgogliosamente la cattedra e si ritirò a vita privata, non disdegnando tuttavia di seguire con amorevole cura, presso la propria abitazione, alcuni suoi studenti (tra i quali il Di Palma) nella stesura delle tesi di laurea.
Recentemente, sempre per merito del Prof. Di Palma, sono entrato in possesso di queste ultime pagine scritte dal Petruzzellis.
Un gioiello di sintesi, un compendio essenziale di meditazioni e di riflessioni durate una vita su una figura, quella di Gesù, di vitale importanza per ogni singolo uomo e per l'umanità nel suo complesso.
In una specie di testamento spirituale, il Nostro - come un pittore di grande talento - tratteggia con magistrale rapidità  le relazioni salienti di Gesù con l'uomo visto da molteplici angolazioni.
Ne scaturiscono considerazioni per me bellissime, che ho voluto condividere con i miei cinque lettori.
Una in particolare, quella su Gesù fra i ricchi, mi obbliga certamente a rivedere la mia visione del mondo, forse viziata da un eccesso di pauperismo. 
E infatti non solo i poveri, che rimangono pur sempre i destinatari privilegiati della "buona novella", ma anche i ricchi possono salvarsi, a patto che lo vogliano davvero e che sappiano rinunciare al superfluo per amore del povero.

venerdì 8 giugno 2012

Dei doveri e delle follie dei principi e dei cortigiani

 È già gran tempo ch’io differisco di dir qualche cosa intorno ai principi ed ai grandi, i quali sono del tutto opposti a que’ furbi ed impostori, di cui or ora ho parlato; essi mi coltivano senza verun riguardo, e con quella franchezza ch’è propria del loro grado. Se questi felici semi-dei avessero in zucca soltanto una mezz’oncia di cervello, che cosa mai vi sarebbe al mondo di più triste e miserabile della loro condizione? Chiunque si prendesse la pena di riflettere attentamente ai doveri d’un buon monarca, non che volesse usurpare una corona collo spergiuro, col parricidio, col liberticidio, in una parola coi più esecrandi delitti, tremerebbe invece all’aspetto d’un carico così enorme. Imperocché osserviamo in che cosa consistono gli obblighi d’un uomo che vien posto alla testa di una nazione. Egli deve travagliare giorno e notte pel pubblico, e mai pel privato interesse; non pensare che ai pubblici vantaggi; osservare pel primo le leggi, di cui è autore e depositario, né mai deviare in nulla da quelle; osservare da sè stesso, o con occhi ben sicuri, l’integrità degli ufficiali e dei magistrati; aver sempre presente che gli sguardi di tutti stanno fissi sulla sua pubblica e privata condotta, e che a guisa d’un astro salutare può utilmente influire sulle cose umane, o qual infausta cometa può cagionare le maggiori desolazioni. Non deve dimenticarsi giammai che i vizj, ed i delitti de’ sudditi sono infinitamente men contagiosi di quelli del padrone; ripetere ogni giorno a sè medesimo che il principe si trova in sì alto grado ove, dando cattivi esempj, la sua condotta è una peste che si comunica tosto, e fa una grandissima strage; riflettere che la fortuna d’un monarca lo espone continuamente al pericolo di abbandonare il retto sentiero, che deve resistere ai piaceri, alla lusinga dell’impunità, all’adulazione, al lusso, e che non saprebbe nè mettersi abbastanza in guardia, ne abbastanza reprimere tutto ciò che il può sedurre. Deve finalmente richiamarsi spesso alla memoria, che oltre alle insidie, agli odj, ai timori, ai mali tutti, a cui il principe trovasi esposto ad ogni momento rispetto ai suoi sudditi, ei deve tosto o tardi comparire innanzi al tribunale del re dei re, ove gli verrà chiesta stretta ragione di tutte le sue più piccole operazioni, ed ove sarà giudicato con un rigore proporzionato all’estensione del suo dominio. Io pertanto lo ripeto ancora, che se un principe riflettesse a tutte queste cose, alle quali dovrebbe pur troppo far riflessione se fosse un tantino savio, non potrebbe certamente nè mangiare, nè dormire tranquillamente un sol giorno di sua vita. Ma non temete; io ho posto rimedio anche a questo, e col favore della mia inspirazione i principi riposano tranquilli sul destino e sui loro ministri; vivono nella mollezza, e non trattano se non con quelle persone che possono contribuire a divertirli, ed a preservarli da ogni inquietudine ed afflizione. Credono costoro di soddisfare anche troppo ai doveri di un buon re divertendosi quotidianamente alla caccia, mantenendo bellissimi cavalli, vendendo a proprio vantaggio le cariche e gli impieghi, mettendo in opera degli espedienti pecuniari per divorare le sostanze de’ popoli, e per impinguarsi col sangue de’ loro schiavi. Non può negarsi che usino dei riguardi sul punto delle imposizioni: si allegano sempre dei titoli di bisogno, dei pretesti d’urgenza, e benché in fondo tali esazioni non siano talvolta che un mero ladroneccio, pure si studiano di coprirlo col velo del pubblico interesse, della giustizia e dell’equità; danno ai popoli delle buone parole, chiamandoli i suoi Buoni, i suoi Fedeli, i suoi Affezionatissimi sudditi; e mentre si spogliano con una mano, s’accarezzano coll’altra, per prevenire i loro lamenti, ed accostumarli a poco a poco a sopportare il giogo della tirannia. Ora poi, voglio farvi una supposizione: figuratevi sul trono (cosa che pur troppo spesso suol accadere) figuratevi, dico, sul trono un uomo ignaro delle leggi, quasi nemico del pubblico bene, che non tende se non al suo proprio interesse, schiavo dei suoi piaceri, sprezzatore delle scienze, che sdegna la verità, che non può ascoltare un linguaggio sincero, il cui ultimo pensiero sia la felicità de’ suoi schiavi, che non segua se non le sue passioni, che misuri ogni cosa dalla propria utilità. Mettete a quest’uomo la collana d’oro, ornamento che significa il complesso e l’unione di tutte le virtù; ponetegli sul capo la corona arricchita di pietre preziose, il che lo avverte d’essere in obbligo di sorpassare tutti gli altri in ogni sorta di eroiche virtù; dategli in mano lo scettro, quello scettro ch’è il simbolo della giustizia, e di un’anima completamente incorruttibile; vestitelo finalmente della porpora, che dinota un vivo amore pei popoli, ed un ardentissimo zelo por la loro felicità. Io son di parere che se questo monarca confrontasse i suoi reali ornamenti colla viziosa sua condotta, non potrebbe a meno di provarne vergogna e rossore, e son persuasa che egli temerebbe grandemente d’esser messo in ridicolo insieme coi suoi simbolici fregi da qualche sensato e lepido chiosatore.
Passiamo ora ai grandi della corte. Non havvi schiavitù più vile, più nauseante, più spregevole di quella, a cui si sottomette questa specie ridicola di persone, e ciò non ostante essa suol guardar d’alto in basso il resto de’ mortali. Conveniamo però che sono modestissimi circa un sol punto, ed è, che contenti di portare indosso l’oro, le pietre, la porpora, e tutti gli altri simboli della saviezza e della virtù, cedono facilmente agli altri la cura d’essere savi e virtuosi. Per essi la maggiore felicità è quella di aver l’onore di parlare al re, di chiamarlo signore e padrone assoluto, di fargli un breve e studiato complimento, di potergli prodigare i titoli fastosi di vostra Maestà, di vostr’Altezza Reale, di vostra Serenità, ecc. ecc. Tutta l’abilità de cortigiani consiste nel vestire con proprietà e magnificenza, nell’essere sempre ben profumati, e soprattutto nel saper adulare con finezza. Quanto poi allo spirito ed ai costumi sono veri Feaci, sono veri amanti di Penelope; voi sapete quanto ne dica il buon Omero e meglio di me ve lo ripeterà la ninfa Eco. Lo schiavo vile del monarca, purché non debba fare la corte al suo signore (poiché in questo caso si leverebbe anche al primo canto del gallo, suol dormire fine al meriggio; ed appena svegliato, il mercenario cappellano, che ne attendeva il momento, gli barbuglia in fretta in fretta una messa. Passa quindi a far colezione, e di lì a poco al pranzo, a cui succedono immediatamente i giuochi de’ dadi e degli scacchi, i buffoni, le cortigiane, gli sconci trattamenti, e tutti quegli altri piaceri, che chiamansi passatempi. Questi divoti esercizj si fanno non senza una o due merende; quindi si cena, e si passa la notte in mezzo alle bottiglie; e senza mai ricordarsi che si nasce per morire, si passa rapidamente la vita. Le ore, i giorni, i mesi, gli anni, i lustri trascorrono per essi senz’alcuna noia a guisa di lampe. Parmi di uscire da un convito, quando miro costoro gloriarsi delle loro ridicolaggini. Quella ninfa credesi più vicina agli Dei, perchè dietro si strascina una coda più lunga delle altre; questo grande, che ha ricevuta una gomitata nello stomaco del suo principe, mentre tentava di penetrar nella folla, si compiace e crede che vi sia minor distanza tra lui ed il suo sovrano; quel cortigiano si pavoneggia per la catena d’oro che gli pende dal collo, perchè pesa molto più di quella degli altri, facendo così pompa non meno della sua opulenza, che della facchinesca sua robustezza.
Da "Elogio della follia" di Erasmo da Rotterdam

mercoledì 6 giugno 2012


"Dormivo e sognai che la vita era gioia.
Mi svegliai e vidi che la vita era servizio.
Volli servire e vidi che la vita era gioia!"

R. Tagore (poeta indiano)

martedì 5 giugno 2012

Parole sempre attuali





Nella casa del giusto anche coloro che esercitano un comando, non fanno in realtà che prestare un servizio a coloro cui sembrano comandare. 

Essi infatti non comandano per cupidigia di potere ma per dovere di fare del bene agli uomini; non per orgoglio di primeggiare ma per amore di provvedere. 

S. Agostino ("La città di Dio")

domenica 3 giugno 2012

Figure d'altri tempi

Mons. Nicola Monterisi
"Non avrei mai creduto che ad un certo punto della mia vita mi sarei trovato a raccontare di un vescovo apologeticamente ed ex abundantia cordis: senza distacco, senza ironia, senza avversione."  
Così scriveva Sciascia nella Nota al suo incantevole "Dalle parti degli infedeli", dopo aver documentato con lettere e documenti già sotto il segreto del Sant'Uffizio, le vicissitudini di Mons. Angelo Ficarra, vescovo di Patti e conterraneo del grande scrittore.
Ed è quello che - fatte le debite proporzioni - è capitato anche a me.
Infatti l'ultimo libro, di cui ha voluto farmi dono il mio colto amico Prof. Antonio Di Palma (Nicola Monterisi, Arcivescovo di Salerno 1929-1944), mi ha dato l'opportunità di scoprire un altro vescovo che può ben competere con il suo coevo siciliano per spiritualità, cultura ma soprattutto per coraggio. Entrambi, pur nella diversità delle rispettive situazioni, dimostrano una singolare tempra di combattenti. Il primo alle prese con una personale, lunga  battaglia con i vertici della Curia romana, l'altro impegnato in un confronto breve ma intenso con gli Alleati e i vertici del Governo Italiano dell'epoca.
Le lettere di Mons. Monterisi al Ten.Col. Herbert Robertson, governatore della provincia di Salerno, al Maresciallo Badoglio ed al Comando Alleato testimoniano un'eccezionale forza d'animo ed un'assoluta trasparenza evangelica. "Sia il vostro parlare: sì, sì; no,no!"
A me - già militare di carriera - quelle lettere sono sembrate straordinarie per l'essenzialità, la schiettezza ed, a tratti, anche per la durezza di talune espressioni usate nei riguardi di altissime cariche militari ed istituzionali.
Un linguaggio secco, asciutto e senza fronzoli,  privo di ammiccamenti o blandizie diplomatiche. Uno stile in cui emergono nettamente chiarezza e assoluta mancanza di toni felpati.
Figure indomite come quella dell'allora Arcivescovo di Salerno, originario della vicina Barletta, oggi non se ne vedono più.
Ed è certamente anche per questo che un potere arrogante e protervo, libero da freni inibitori e senza  argini morali , dilaga ormai da tempo nel nostro Paese.

Ecco, in corsivo, il testo delle coraggiose missive intese a bloccare i ripetuti tentativi di requisizione del Seminario Regionale prima da parte del Comando Alleato e poi da parte del governo, il quale intendeva sistemare i vari ministeri dopo che Salerno era divenuta capitale della zona liberata:
  • al Ten .Col. Herbert Robertson in data 5 dicembre 1943:  "Il Seminario Pontificio è già da alcuni giorni in piena attività e gli alunni di liceo e teologia sono già quasi tutti rientrati, altri ancora per rientrare. Essi provengono da ben 36 diocesi [...]. Requisire il Seminario Pontificio significa colpire di disagio irreparabile tutte codeste Regioni Ecclesiastiche [...]. Devo inoltre ricordare che la S. Sede ha affidato al Governo Inglese la tutela degli interessi religiosi delle Regioni dell'Italia Meridionale. Ora nessun interesse è più vitale per la Chiesa di quello dei Seminari... ";
  • alle insistenze del Maresciallo Badoglio, Capo del Governo di Sua Maestà il Re, Monterisi l'8 dicembre 1943 scriveva in maniera non meno decisa: "Volete requisire il Pontificio Seminario Regionale di Salerno. Mi permetto di sottoporvi le seguenti mie osservazioni: Vi accludo l'annuario a stampa di detto Seminario per lo scorso anno scolastico, donde risulta che è Istituto unico di studi ecclesiastici della vasta zona tirrenica che va dal Golfo di Gaeta al Golfo di Taranto. Requisire tale Seminario vuol dire disorganizzare la vita religiosa per parecchi anni in tanta vasta zona italiana. Mancherà la successione sacerdotale; mancherà l'assistenza al popolo, mentre è in atto l'assalto comunista a queste popolazioni irritate, sacrificate, affamate dalla disastrosa guerra che ancora continua. Se togliete il puntello del prete, le cose veramente precipiteranno. Io non potendo comunicare con la S. Sede ho dovuto fare da me. Con sforzo immane, senza chiedere un soldo ad alcuno, nei due mesi scorsi ho fatto restaurare il Seminario dai danni dei bombardamenti. Vi ho speso circa mezzo milione. Prima di accingermi a tanta spesa, per essere più sicuro chiesi e ottenni dal Governo degli Alleati il permesso di aprire il Seminario. Non dovrebbe essere proprio il Governo Nazionale ad annullare tanto sforzo.
  • Mente scrivo il Seminario contiene già 200 alunni, e se ne aspettano molti altri, come possano questi avere mezzi di fortuna che li conducano qui. Anzi, siccome il Pontificio Seminario di Benevento ha avuto danni tali da non essere suscettibile di immediati restauri, parecchi vescovi di quella Regione hanno mandato qui i loro alunni. Siamo quindi oltre 30 Vescovi interessati in questa opera. La stessa S. Sede, per mancanza di comunicazione, non conosce che il suo Seminario è aperto. Inoltre io parlo al Governo Italiano, il quale appena 14 anni fa ha firmato con la S. Sede un Trattato ed un Concordato col quale gli Enti Ecclesiastici, e quindi molto più i Seminari, sono riconosciuti di interesse pubblico e il Governo si impegna a tutelarli. Anche legalmente dunque, non difendo interesse mio o nostro privato. Né il Seminario è edificio comune, che lasciandone uno sia possibile trasferirsi in un altro. È edificio unico. Infine se proprio avete bisogno di edifici ecclesiastici, io preferisco che occupiate alcune chiese, potendosi restringere il culto nelle altre e non il Seminario che è unico. Noi Episcopato, che abbiamo giurato fedeltà a Sua Maestà il Re, aspettiamo che Sua Maestà voglia risparmiarci così irreparabile danno spirituale. 
    Nicola Monterisi, Arcivescovo di Salerno
Per far recedere l'Arcivescovo dalla sue posizioni, Badoglio - due giorni  dopo - gli faceva portare a mano dal Generale di Corpo d'Armata Gustavo Reisoli-Mathieu la seguente lettera:

"Eccellenza, il Governo si deve stabilire a Salerno per espresso desiderio degli allleati anglo-americani. Per la sua sistemazione è indispensabile occupare il Seminario. Io comprendo che ciò sia di notevolissimo disturbo alla Curia, ma tutti soffrono in questo momento per ottenere la liberazione del nostro Paese. Naturalmente sarà pagato un congruo canone di affitto e indennizzati gli eventuali guasti. Io spero vivamente che V. E., da buon italiano, aiuterà il Governo in questa sistemazione. Il Generale Reisoli cercherà di agevolare la eventuale sistemazione dei seminaristi in altra località.
Prego V. E. gradire l'espressione della mia alta considerazione
Badoglio
L'Arcivescovo il 12 dicembre rispose con questa lettera (fatta consegnare al Comando Alleato) che si caratterizza per il taglio deciso e pragmatico. Si noti, ad esempio, l'indirizzo sbrigativo ma onnicomprensivo:
"Alle Autorità chiunque esse siano, che vogliono occupare il Pontificio Seminario Regionale Pio XI di Salerno.
Io devo loro ricordare che il suddetto Seminario, come edificio, è proprietà della S. Sede; e come Istituto di studi ecclesiastici, oggi in piena efficienza, dipende dalla S. Sede.
È ingeneroso occuparlo oggi, che la S. Sede, assediata com'è dal comune nemico, che sono i Tedeschi, è ignara di quanto qui accade, né io ho il modo di farle pervenire notizie. 
La S. Sede è la grande potenza morale, unica la mondo, con la quale l'Italia è in relazioni diplomatiche; e la maggior parte delle Potenze Alleate, se non hanno relazioni diplomatiche, sono in rapporto di amicizia e di rispetto.
Se l'atto di occupazione fosse fatto in danno di altra Potenza armata oggi sarebbe equivalente a dichiarazione di guerra.
Si rimprovera alla Germania di aver annullata la forza del diritto e di avervi sostituito il diritto della Forza. Ebbene quello che accade intorno a questo seminario è l'applicazione, in piccolo, del medesimo principio. In piccolo o in grande il principio resta identico.
E fosse il Seminario vuoto si potrebbe fingere una "Res Nullius", ma viceversa, esso è in piena efficienza di alunni, di superiori, di professori, di lezioni in corso.
Per farVi notare l'importanza dell'Istituto, io Vi accludo copia dell'Annuario dello scorso anno scolastico 1942-1943, donde risulta che vi accorrono alunni dalla Provincie di Napoli, Littoria, Salerno, Avellino, Potenza e Matera, e vi sono impegnati circa 30 Vescovi.
Unico Istituto del genere nella vasta zona tirrenica, che va dal Golfo di Gaeta al Golfo di Taranto. Aggiungete che io, non potendo comunicare con la S. Sede, ho dovuto fare da me. Ho curato i restauri dei danni delle incursioni per un valore di circa mezzo milione: e per essere più sicuro, prima di iniziare tali restauri ed invitare i Vescovi interessati a mandarmi i loro alunni, chiesi ed ottenni il permesso per iscritto di aprire il Seminario alle Autorità locali della Nazioni Alleate.
Dopo ciò dichiaro, sapendo di averne diritto, che nessuno uscirà dal Seminario Pontificio Regionale, alunni o superiori, se non si adoperi la violenza della forza armata. 
La violenza deve essere evidente e pubblica.
Nicola Monterisi, Arcivescovo di Salerno

Il Maresciallo Badoglio non si arrese a questo documento, così chiaro e categorico, e il 16 dicembre si recò personalmente all'arcicivescovado. 
Durante il colloquio, alla presenza di testimoni, il Presule prospettò al Capo del Governo le varie soluzioni che "senza alcun incommodo" potevano essere adottate per ospitare nelle strutture cittadine i vari ministeri. 
A quel punto Badoglio, non misurando bene la statura morale del suo interlocutore, credette di dover usare le maniere forti. Fu così che, rivolgendosi al Monterisi, gli chiese:
"Ma, lei, Eccellenza, è italiano?"
Il vecchio vescovo, già seriamente ammalato, rispose con la fermezza ed il vigore di un lottatore di razza:

"Non permetto che si metta in discussione la mia italianità; mi sento e sono più italiano del maresciallo Badoglio. Quando il popolo è rimasto solo e stremato dalle sofferenze della guerra io, vecchio di 76 anni, col mio clero sono rimasto al mio posto a conforto e sollievo della popolazione, mentre il maresciallo Badoglio è scappato a Pescara!"

Una perfetta sintesi di orgoglio e di patriottismo.

Pontificio Seminario Regionale Pio XI  di Salerno - Veduta generale

P.S.: il Seminario non venne requisito e i Ministeri furono ospitati in altri edifici della città.

Il miracolo perpetuo dell'esistenza

  Non mi interessa più capire come un dio possa essere uno e trino, come Gesù sia uomo e figlio di dio.  Sono anch'io figlia di dio e am...