Adam Kabobo il ghanese, il piccone e l'(in)civiltà dell'indifferenza
Ad armare la mano omicida di Adam Kabobo, in quella terribile giornata milanese dell'11 maggio 2013, fu certamente la follia.
Ma, valga quel che valga, la mia opinione è che in casi come questo la follia non agisce mai da sola e che a farla esplodere in modo pericoloso e imprevedibile sono obiettivi fattori ambientali oltre che insondabili meccanismi psicologici.
A scompaginare progressivamente la mente del giovane ghanese concorsero infatti altri inesorabili nemici.
Nemici subdoli, cinici, senza pietà: la fame, il freddo, l'isolamento, le delusioni, le frustrazioni, le umiliazioni accumulate giorno dopo giorno in una città inospitale, ostile. impermeabile al dolore degli altri; una vita vissuta nell'indifferenza generale, una scansione dolorosa e sempre uguale delle ore in una terra che non è più di Dio ma che appartiene ai singoli egoismi del mondo; una disperazione alimentata dal contatto quotidiano con persone sorde ai bisogni di un clandestino, irritate dalla sua stessa presenza, pronte ad allontanare persino lo sguardo da chi ha il solo torto di ritrovarsi con la pelle più scura.
Mai un saluto, mai un sorriso, mai una pacca sulla spalla, mai una stretta di mano.
Soltanto crampi allo stomaco e un'infinita, insopportabile, impossibile solitudine.
Come può a lungo rimanere salda la psiche di un uomo in condizioni così estreme di disagio, di solitudine e di sofferenza?
Qualcuno sa dirmelo?