Continuo per mia fortuna a credere in Dio che è Padre di tutti ed opera per mezzo di tutti anche se mi trovo in parte d’accordo su alcune disincantate riflessioni contenute ne “Il dubbio e Dio”, ultima fatica del mio colto e dotto amico Giovanni Di Tommaso.
Sono peraltro convinto che la teologia, lungi dal rappresentare qualcosa di statico, di stantio, di polveroso e di immutabile da relegare nella triste penombra di un museo, deve potersi adeguare alle mutate sensibilità sociali e spirituali dei tempi, ponendosi di continuo al servizio dell’uomo, del suo presente e del suo divenire. Trovo, per esempio, molto vicina alla mia visione del mondo l’ardita, coraggiosa teologia della liberazione che, nata in America Latina e duramente avversata dalla Chiesa paludata e conservatrice di Wojtyla, può essere considerata valida anche in altri contesti geopolitici e per altre società, ivi compresa la nostra società borghese dell’Occidente in cui è dato assistere - soprattutto oggi - ad una crescente diffusione della miseria, dell’ingiustizia e delle diseguaglianze.
Proprio per questo la fede del cristiano, fede che deriva la propria forza rivoluzionaria dalla “buona notizia” data ai poveri, deve superare l’immobilismo secolare di vuoti, ipocriti formalismi devozionali e tradursi in fatti concreti, cioè in una fede autentica e viva perché incarnata nella vita delle persone.
In tal modo la fede, mediante un’operosa dimensione “politica”, può finalmente tentare la strada di una liberazione totale dell’uomo ed affrancarlo da ogni forma di schiavitù in ogni fase della sua esistenza.
Per il cristiano che ha assimilato la bellezza e la grandezza del “discorso della montagna”, per chi crede nel valore delle “beatitudini”, per chi vede riflesso nei poveri e negli emarginati il volto stesso di Dio, sottrarre qui e adesso “i dannati della terra all’inferno della discriminazione, dell’oppressione e della violenza” diventa un dovere urgente, categorico, ineludibile.
Il paradiso può attendere…